sabato 25 novembre 2006

quello che il sole oscura...(S)

Le 02:30.
Mi preparo, e uscendo accosto la porta della stanza, non la chiudo, quasi dovessi lasciare la possibilità di uscire a
qualcosa che gelosamente custodisco.
Percorro le vie isolate di questa grande città, che conosce piccole e grandi tragedie quotidiane; i miei passi risuonano
di eco smorzate che raccontano alla strada la mia storia; io resto inerme, e passivo raccolgo ciò che stasera il mondo
mi regala: ossigeno, silenzio, buio.
Cerco con lo sguardo una luce, anche una piccola sorgente artificiale, misera, che mi ricordi quanto siano piacevoli
le tenebre; sdegno il giorno, ciò che è chiaro, che è luce; tutto ciò che si offre lampante, senza impegno, nella totale e
usurata apparenza.
Ascolto un ronzio in crescendo, lento ma assillante, un frigo di un bar, un lampione sovraccarico… mi basta indirizzare gli occhi lungo il cornicione di un’ aiuola per sorridere alla vista di due gatti che si fanno le fusa.
E’ la notte che mi accoglie, nelle sue lunghe e calde ore trovo riposo.
Non so cosa cerco, ma a questo anelo: la tenue ignoranza del mio oggetto del volere, la continua ricerca non nel dove, ma nel cosa.
Piango quasi ogni sera, disperando nel tentativo di bastare a me stesso; ho ricordi di momenti mai vissuti e per questo da non dimenticare; il vuoto dilaga nell’attesa della mia refrigerante sortita.
Che piacere immenso calarmi nei panni di me stesso: mettere una maschera che col buio si offusca e allo specchio non si riconosce.
Per strada incontro sempre qualcuno o qualcosa: stasera ho la certezza di trovare ciò che non sto cercando e questo mi basta. Colgo un rifiuto inconsapevole del mio retaggio, per la prima volta la mia anima fa visita al mio corpo, e col sangue lavo le mie due colpe: la colpa del non riconoscimento, e quella del ripiego.
Due facce di una medaglia che ho appeso al collo e che oramai mi schiaccia col suo peso enorme; un peso che è cresciuto col tempo, cioè con me, col mio volgermi continuo alla condizione che meno mi scomoda.
Ed ho imparato dal vento a lasciar passare invano, persuaso di due sciocchezze: che il nulla esistesse, e che potesse lasciarmi inalterato, incolpevole.
Stanotte nulla è cambiato, a parte la convinzione che qualcosa è cambiato; l’illusione nel volermi illudere che non sia io a percorrere queste strade anonime, a incrociare occhi di donne somiglianti a fari di navi alla deriva.
Stanotte nulla cambierà a parte il cambiamento stesso: la convenzione, dettata dall’uomo, articolerà in archivi avidi di nome questo mio breve sospiro di rivalsa su ciò che di peggio ho raccolto dalla vita, dalla mia propensione agli altri, alle modifiche e ai camuffamenti apportati al mio istinto di sopravvivenza.
Non è risentimento che governa il mio rimprovero, ma dispiacere nell’accusa che muovo a chi manca dell’essenza che è propria di chi è umano.
L’umanità, la chiave.
La notte è stanca di me, lo avverto.
Faccio dietrofront non so neanche a cosa e torno, come ogni notte, in una camera, ben arredata, attrezzata di tv, stereo e tutto l’occorrente che serve a un uomo per non lasciarlo solo con se stesso a pensare.
Ripercorrendo i miei passi, un pensiero mi attanaglia…E se consistesse proprio in questo il volgersi della vita, un lento e massacrante ripercorrere i propri passi, talvolta con scarpe nuove, a immaginarci che così il cammino sia più piacevole; un perenne stillicidio, una tortura data dalla condizione necessitante della costrizione, pilastro inattaccabile della nostra esistenza.
Ho un vuoto e con la mente esploro la moltitudine di possibilità che questa mancanza mi apre: posso aver dimenticato un ricordo, cioè aver cancellato qualcosa che può essere tale solo se ricordato. Ma un ricordo non si dimentica, un ricordo esiste nel momento, in un unico momento. O meglio è e nient’altro; un ricordo è tale nel momento in cui è e non lo sarà in un futuro, per quanto risulti simile alla nostra percezione in una sua copia esatta.
Sorrido; perché speculare, in fondo ho dimenticato solo la porta aperta.
Giunto sul pianerottolo di casa, volgo lo sguardo alla sfera luminosa, così tanto onesta, ma allo stesso tempo bugiarda.
Le sussurro della mia esistenza, ma ella pare non accorgersene.
Resta abbagliata dal suo egocentrismo, e abbaglia anche gli oggetti della sua comprensione; sono contento di sottrarmi a questa luna…improvvisamente mi sembra troppo lucente, troppo chiara. E a me le cose chiare non piacciono.
Rivolgo frontalmente il capo, ma nulla di ciò che mi aspetto accade.
Non un calcio da parte di un’ ombra che ha rinchiuso la vita in una bottiglia di whisky, non un ringhio ambizioso di un cane rabbioso, nulla di ciò che più golosamente attendo accade.
Disilluso, porgo le mie scuse alla mia coscienza, che come ogni sera mi risponde con un’amichevole pacca sul didietro.
Entro in silenzio come solo io so fare, e attraversando l’entrata, sosto davanti alla cucina. Mi avvicino a uno scaffale e prendo due bocconi di tonno da una scatoletta già aperta.
Esco dalla cucina e attraversando la camera faccio attenzione a non svegliarlo. Non vorrei mai, non sarei in grado di spiegargli perché lo faccio…perché ogni notte lo abbandono per rifugiarmi nell’abbraccio di quegli squallidi viottoli angusti.
In realtà la risposta è si semplice, ma tautologica. Ed in ogni caso non avrei i mezzi per poterglielo spiegare.
Come dirgli che quello che faccio lo faccio perché sento di farlo, perché è la mia natura?
Dovrei elaborare un lungo ragionamento, le cui parti siano concatenate da legami logici, perlomeno grammaticalmente fluenti. E anche se dovessi riuscire a far questo, come potrei comunicarglielo?
Metto da parte i miei pensieri; i pensieri non piacciono a Morfeo, egli ne sta superbamente alla larga.
Salgo sul letto e mi accovaccio in posizione fetale.
Sento dei lamenti, starà facendo uno di quei strani suoi sogni. Non importa, domattina me li racconterà, carezzandomi affettuosamente la nuca, abbandonando per un breve ma eterno istante le ruote che lo inchiodano al suo passato e presente, vagherà per paesi nascosti dal sole, inneggerà a pianeti virtuosi e attenderà il mio costante segno di accondiscendenza, un piccolo effetto sonoro prodotto dalla vibrazioni delle mie corde vocali, che lascia indifferenti tutti gli uomini, ma che invece illumina di infante dolcezza i suoi occhi: un tenero, acuto miagolio.

Per te (S)

E lontano un vento orfano m’ha sussurrato di lei.
Me ne ha cantato il pianto che ella offre alla luna nascosta,
stuprata dalle nubi ansanti che avvalgono matrone il suo candore.
Sul mio viso ha trascinato calde lacrime, sgorgate da sogni tiepidi.
Ha pianto le mie stesse lacrime e oziato sui miei stessi giacigli.
Danza con la notte e nell’oblio mi porta consiglio.

Nelle notti l’ho attesa sul mio uscio,
con compagne solo le stelle
a scrutare sul mio corpo l’ombra della vita,
a placare con l’incanto il tenue sapore della morte.

Poi, un mattino perso dal tempo,
una voce comandò il mio sangue.
Due occhi fendenti di sole ghiacciarono parole non dette.
Un fuoco risparmiò i fiori di un martirio,
nell’attesa che un dio mi donasse quanto fin allora m’aveva negato.
Evanescente, lontana, invisibile ma reale.
Forma incompiuta di un battito cocente,
delirio riposto in un cuore impaziente,
essenza pura di vuoti incolti.

Mille viaggi e mille lune hanno preceduto la tua venuta
Cento cantori narrano la tua storia
Un solo sguardo e un solo cielo sarà quello che tu brami
Occhi di sole e labbra violate saranno i miei domani
Il mio peccato ha generato un amore corrisposto
E nel peccato rifuggo il dolore di un rimorso.

venerdì 24 novembre 2006

L'inferno dell'Eden (S)

Seduto sulla sabbia di una spiaggia anonima, di una terra anonima…

Il mio nome lo sussurra la brezza notturna, che accarezza visi rigati da dolci lacrime materne, gioiosi guanciali infanti, fronde di castagni.
Il mio nome si accende al tramonto, scuote nell’ignoto, sfugge al ricordo e violenta le vergini.
Il mio nome è sperso fra l’esistenza, è nutrito dall’essere, esso mi necessita.
Il mio nome è paura, il mio nome è ricatto.
Il mio nome non si pronuncia, non si ripete, non si ignora.

Il mio nome risuona fra le lande desolate di terre aride, si perde in seni scuri e raggrinziti incapaci di allattare.
Percuote anime vaghe, troneggia nelle menti vive nel passato.
E’ tuonante nei campi dove gigli selvatici chiedono di esser colti.
Il mio nome è uno, ma è sempre diverso.
Il mio nome è un lamento, una lacrima, un grido straziante di dolore.
Il mio nome è avidità, perfidia, violenza.

Il mio nome era un uomo, odiato con amore.
Il mio nome erano spade incrociate tra fratelli, il mio nome è denaro.
Il mio nome non è mio. Non l’ho mai desiderato.
Il mio nome si è perso quando uomo proferì per primo parola.
Il mio nome mi è stato rubato o non mi è semplicemente mai appartenuto.

Il mio nome adesso è scritto: scritto con sangue che alimenta cadaveri, dentro alle cattedrali colme d’oro e d’argento; il mio nome è inciso sull’anello del mio figlio illegittimo, è rinchiuso fra le sbarre di ferro che annientano l’uomo.

Il mio nome si colora di amore e rispetto. Il mio nome è stato cantato, negato, dissuaso, obbligato.
Il mio nome è rifiuto ed io nel rifiuto ho trovato la pace.
Il mio nome si è spento sulle labbra di chi mi ha atteso invano.
Voglio la pace che mi ha negato chi ha innalzato il mio nome a scudo.

Il mio nome è finito, o non è mai cominciato.


DIO