giovedì 14 dicembre 2006

quando il nulla avvolge il pensiero (S)

Arde sulla coltre gelida di un oceano senza nome
la preghiera impetuosa di chi uomo fu e lo ha rinnegato
di chi abbeverò Pegaso dal calice profano della tolleranza
in un tempo che è stato momento di luoghi negato
nel sussulto spasmodico di una veglia divina
nella quiete di un pianto neonato
chetato dal voluttuoso rimorso materno
nella lercia rugiada degli occhi di chi
imbrattatosi di vita
implora dio alla liberazione

E affiora alla mente la nenia di un predicatore
nell'incontro perverso di un riflesso incantatore
bontà declamava e amore
ne fece dono del principio al mondo
Ma il mondo fece di lui
principio di ciò che bontà e amor non era

Sullo svanire di una notte agognata
al lieve ondeggiare dell'omaggio di Prometeo
brucia inchiostro nero sulle mie carni
cinque cifre oggi riscuotono il mio nuovo nome
e insieme ad esso rivendico il mio passato

Nella sicura evasione dall'inferno perenne
mi volgo verso realtà che sogno non era
rivivo ira rabbia odio del presente
ma di colori si stinge un vago ricordo
che nel pensiero ritrova una legge cocente

vivo soavemente nel futuro che conosco
privato dolcemente dell'attesa del domani
stuprato nel dolore da un passato che rincorro
perdo la coscienza del rimpianto di un rimorso

venerdì 1 dicembre 2006

Quello che resta dei problemi

Credo che molta gente passi la propria vita nell'inseguire la sofferenza, o meglio la parvenza di essa; persone che vivono avide di perseguire quelle forme stereotipate di dolore alle quali sono state abituate dalla tv, dai mass media, ma anche dalla società, e le ripropongono nella speranza di riprodurre lo stesso effetto altisonante. Una sorta di richiamo, un bisogno parassitario di attenzione.
Si alzano al mattino pensando già di essere incomprese, disilluse nel tentativo di comunicare il proprio stato emotivo e psicologico, esclusivizzano il proprio disagio atteggiandosi in comportamenti scenografici e disarmanti e recitano da bravi attori la parte di vittime della vita, teatralizzando una condizione persecutoria nei loro riguardi da parte della fortuna ( entità che peraltro viene elevata a macchina regolatrice dell' esistenza).

Non vorrei sembrare eccessivamente severo e cinico nei riguardi di chi vive in stati di disagio, ma non concepisco l'idea che una persona possa adoperarsi per poi vantare una serie di problemi relativi ad una presunta condizione "disastrata".
So per esperienza indiretta che chi vive realmente in condizioni di disagio psichico difficilmente trova la forza di uscire, lavarsi, vestirsi, o semplicemente alzarsi dal letto.
Troppo spesso sento impunemente utilizzare la parola "depressione" per definire un periodo di negatività.
Troppo spesso sento impunemente dire che "la vita è orribile, piena di problemi".
Troppo spesso sento l'istinto irrefrenabile di sputare gravi rimproveri a coloro che si pronunciano con tanta leggerezza.

I momenti "no" capitano a tutti; anche i periodi "no" non risparmiano nessuno.
Personalmente quando mi accade di sentirmi giù, stanco o demoralizzato, penso a chi non ha di certo il tempo per fare di questi pensieri: penso a mio padre che esce al mattino da casa per lavoro e torna la sera per cena, penso a mia madre curva sulla macchina da cucire ore ed ore..
Ma questi sono esempi molto banali.

Quando il morale è proprio a terra, mi spingò più in là: penso a un ragazzo rumeno che conosco, che lavora come muratore 12 h al giorno per poi passare per altre 8 h nella cucina di un ristorante; penso ad una signora russa che pulisce scale di innumerevoli condomini dalle 6 del mattino alle 8 del pomeriggio, avendo ha a suo carico, ma lontano da sè, figli, madre e nipoti.

Poi compio un passaggio crudele, opero una sorta di gioco degli opposti: prendo da un lato l'immagine di un bambino denutrito, soffocato da un incessante ronzio di mosche, con lo sguardo imbambolato e a cui è stata tolta la consapevolezza di appartenere alla razza umana. A questa immagine accosto quella di una signora ben vestita che passeggia con accanto la figlia adolescente e le rivolge questa frase "Adesso ti compri le scarpe Paciotti, non farmi vergognare!".
E poi penso, penso, penso...
Penso al diverso significato che attribuisco al termine vergogna, penso al perchè certa gente abbia procreato, penso a quella metà di incolpevolezza dell'adolescente e penso al danno sociale, penso all'assenza di umanità, all'aridità, alla superficialità , all'attaccamento che si può maturare per cose materiali e allo stesso tempo al distacco che si può alimentare per i propri figli,....

Guardo il bambino, mi sembra di poterlo quasi sfiorare. Gli interrogativi mi affollano la mente e paralizzano il mio corpo: che merito ho per vivere? cos'è che mi rende migliore e più adatto alla vita rispetto a un bambino di 3 anni? perchè corredo la mia vita di inutilità?

Ripenso alla prima immagine, vedo il bambino perdere qualcosa che non recepisco.
E' improvvisamente cambiato qualcosa nei suoi occhi, non ha più quella luce...
Penso a quante volte ho visto in faccia la morte. Nessuna.
Niente cinema, niente palpebre socchiuse, nessuna colonna sonora.
Quel bambino è morto per l'assenza di cibo, quel bambino è morto per fame.
La madre lo ha privato delle lacrime. Il mondo lo priva della morte: non ha mai vissuto pur essendo vissuto.

Provate a spiegare a quel bambino qual'è il problema che vi affligge.
Ma adesso non c'è più nulla di cui lamentarsi? Niente ha più valore, giusto?
Ripenso al bambino, che sono io, che è la mia ragazza, che è mia sorella, che è il presidente, l'avvocato, l'operaio, i miei amici, ... Mi si gela il sangue ed è allora che piango.

Che cosa resta dei problemi?
Forse solo un nugolo di mosche che imperversa sul cadavere di un bambino che non è mai esistito.

sabato 25 novembre 2006

quello che il sole oscura...(S)

Le 02:30.
Mi preparo, e uscendo accosto la porta della stanza, non la chiudo, quasi dovessi lasciare la possibilità di uscire a
qualcosa che gelosamente custodisco.
Percorro le vie isolate di questa grande città, che conosce piccole e grandi tragedie quotidiane; i miei passi risuonano
di eco smorzate che raccontano alla strada la mia storia; io resto inerme, e passivo raccolgo ciò che stasera il mondo
mi regala: ossigeno, silenzio, buio.
Cerco con lo sguardo una luce, anche una piccola sorgente artificiale, misera, che mi ricordi quanto siano piacevoli
le tenebre; sdegno il giorno, ciò che è chiaro, che è luce; tutto ciò che si offre lampante, senza impegno, nella totale e
usurata apparenza.
Ascolto un ronzio in crescendo, lento ma assillante, un frigo di un bar, un lampione sovraccarico… mi basta indirizzare gli occhi lungo il cornicione di un’ aiuola per sorridere alla vista di due gatti che si fanno le fusa.
E’ la notte che mi accoglie, nelle sue lunghe e calde ore trovo riposo.
Non so cosa cerco, ma a questo anelo: la tenue ignoranza del mio oggetto del volere, la continua ricerca non nel dove, ma nel cosa.
Piango quasi ogni sera, disperando nel tentativo di bastare a me stesso; ho ricordi di momenti mai vissuti e per questo da non dimenticare; il vuoto dilaga nell’attesa della mia refrigerante sortita.
Che piacere immenso calarmi nei panni di me stesso: mettere una maschera che col buio si offusca e allo specchio non si riconosce.
Per strada incontro sempre qualcuno o qualcosa: stasera ho la certezza di trovare ciò che non sto cercando e questo mi basta. Colgo un rifiuto inconsapevole del mio retaggio, per la prima volta la mia anima fa visita al mio corpo, e col sangue lavo le mie due colpe: la colpa del non riconoscimento, e quella del ripiego.
Due facce di una medaglia che ho appeso al collo e che oramai mi schiaccia col suo peso enorme; un peso che è cresciuto col tempo, cioè con me, col mio volgermi continuo alla condizione che meno mi scomoda.
Ed ho imparato dal vento a lasciar passare invano, persuaso di due sciocchezze: che il nulla esistesse, e che potesse lasciarmi inalterato, incolpevole.
Stanotte nulla è cambiato, a parte la convinzione che qualcosa è cambiato; l’illusione nel volermi illudere che non sia io a percorrere queste strade anonime, a incrociare occhi di donne somiglianti a fari di navi alla deriva.
Stanotte nulla cambierà a parte il cambiamento stesso: la convenzione, dettata dall’uomo, articolerà in archivi avidi di nome questo mio breve sospiro di rivalsa su ciò che di peggio ho raccolto dalla vita, dalla mia propensione agli altri, alle modifiche e ai camuffamenti apportati al mio istinto di sopravvivenza.
Non è risentimento che governa il mio rimprovero, ma dispiacere nell’accusa che muovo a chi manca dell’essenza che è propria di chi è umano.
L’umanità, la chiave.
La notte è stanca di me, lo avverto.
Faccio dietrofront non so neanche a cosa e torno, come ogni notte, in una camera, ben arredata, attrezzata di tv, stereo e tutto l’occorrente che serve a un uomo per non lasciarlo solo con se stesso a pensare.
Ripercorrendo i miei passi, un pensiero mi attanaglia…E se consistesse proprio in questo il volgersi della vita, un lento e massacrante ripercorrere i propri passi, talvolta con scarpe nuove, a immaginarci che così il cammino sia più piacevole; un perenne stillicidio, una tortura data dalla condizione necessitante della costrizione, pilastro inattaccabile della nostra esistenza.
Ho un vuoto e con la mente esploro la moltitudine di possibilità che questa mancanza mi apre: posso aver dimenticato un ricordo, cioè aver cancellato qualcosa che può essere tale solo se ricordato. Ma un ricordo non si dimentica, un ricordo esiste nel momento, in un unico momento. O meglio è e nient’altro; un ricordo è tale nel momento in cui è e non lo sarà in un futuro, per quanto risulti simile alla nostra percezione in una sua copia esatta.
Sorrido; perché speculare, in fondo ho dimenticato solo la porta aperta.
Giunto sul pianerottolo di casa, volgo lo sguardo alla sfera luminosa, così tanto onesta, ma allo stesso tempo bugiarda.
Le sussurro della mia esistenza, ma ella pare non accorgersene.
Resta abbagliata dal suo egocentrismo, e abbaglia anche gli oggetti della sua comprensione; sono contento di sottrarmi a questa luna…improvvisamente mi sembra troppo lucente, troppo chiara. E a me le cose chiare non piacciono.
Rivolgo frontalmente il capo, ma nulla di ciò che mi aspetto accade.
Non un calcio da parte di un’ ombra che ha rinchiuso la vita in una bottiglia di whisky, non un ringhio ambizioso di un cane rabbioso, nulla di ciò che più golosamente attendo accade.
Disilluso, porgo le mie scuse alla mia coscienza, che come ogni sera mi risponde con un’amichevole pacca sul didietro.
Entro in silenzio come solo io so fare, e attraversando l’entrata, sosto davanti alla cucina. Mi avvicino a uno scaffale e prendo due bocconi di tonno da una scatoletta già aperta.
Esco dalla cucina e attraversando la camera faccio attenzione a non svegliarlo. Non vorrei mai, non sarei in grado di spiegargli perché lo faccio…perché ogni notte lo abbandono per rifugiarmi nell’abbraccio di quegli squallidi viottoli angusti.
In realtà la risposta è si semplice, ma tautologica. Ed in ogni caso non avrei i mezzi per poterglielo spiegare.
Come dirgli che quello che faccio lo faccio perché sento di farlo, perché è la mia natura?
Dovrei elaborare un lungo ragionamento, le cui parti siano concatenate da legami logici, perlomeno grammaticalmente fluenti. E anche se dovessi riuscire a far questo, come potrei comunicarglielo?
Metto da parte i miei pensieri; i pensieri non piacciono a Morfeo, egli ne sta superbamente alla larga.
Salgo sul letto e mi accovaccio in posizione fetale.
Sento dei lamenti, starà facendo uno di quei strani suoi sogni. Non importa, domattina me li racconterà, carezzandomi affettuosamente la nuca, abbandonando per un breve ma eterno istante le ruote che lo inchiodano al suo passato e presente, vagherà per paesi nascosti dal sole, inneggerà a pianeti virtuosi e attenderà il mio costante segno di accondiscendenza, un piccolo effetto sonoro prodotto dalla vibrazioni delle mie corde vocali, che lascia indifferenti tutti gli uomini, ma che invece illumina di infante dolcezza i suoi occhi: un tenero, acuto miagolio.

Per te (S)

E lontano un vento orfano m’ha sussurrato di lei.
Me ne ha cantato il pianto che ella offre alla luna nascosta,
stuprata dalle nubi ansanti che avvalgono matrone il suo candore.
Sul mio viso ha trascinato calde lacrime, sgorgate da sogni tiepidi.
Ha pianto le mie stesse lacrime e oziato sui miei stessi giacigli.
Danza con la notte e nell’oblio mi porta consiglio.

Nelle notti l’ho attesa sul mio uscio,
con compagne solo le stelle
a scrutare sul mio corpo l’ombra della vita,
a placare con l’incanto il tenue sapore della morte.

Poi, un mattino perso dal tempo,
una voce comandò il mio sangue.
Due occhi fendenti di sole ghiacciarono parole non dette.
Un fuoco risparmiò i fiori di un martirio,
nell’attesa che un dio mi donasse quanto fin allora m’aveva negato.
Evanescente, lontana, invisibile ma reale.
Forma incompiuta di un battito cocente,
delirio riposto in un cuore impaziente,
essenza pura di vuoti incolti.

Mille viaggi e mille lune hanno preceduto la tua venuta
Cento cantori narrano la tua storia
Un solo sguardo e un solo cielo sarà quello che tu brami
Occhi di sole e labbra violate saranno i miei domani
Il mio peccato ha generato un amore corrisposto
E nel peccato rifuggo il dolore di un rimorso.

venerdì 24 novembre 2006

L'inferno dell'Eden (S)

Seduto sulla sabbia di una spiaggia anonima, di una terra anonima…

Il mio nome lo sussurra la brezza notturna, che accarezza visi rigati da dolci lacrime materne, gioiosi guanciali infanti, fronde di castagni.
Il mio nome si accende al tramonto, scuote nell’ignoto, sfugge al ricordo e violenta le vergini.
Il mio nome è sperso fra l’esistenza, è nutrito dall’essere, esso mi necessita.
Il mio nome è paura, il mio nome è ricatto.
Il mio nome non si pronuncia, non si ripete, non si ignora.

Il mio nome risuona fra le lande desolate di terre aride, si perde in seni scuri e raggrinziti incapaci di allattare.
Percuote anime vaghe, troneggia nelle menti vive nel passato.
E’ tuonante nei campi dove gigli selvatici chiedono di esser colti.
Il mio nome è uno, ma è sempre diverso.
Il mio nome è un lamento, una lacrima, un grido straziante di dolore.
Il mio nome è avidità, perfidia, violenza.

Il mio nome era un uomo, odiato con amore.
Il mio nome erano spade incrociate tra fratelli, il mio nome è denaro.
Il mio nome non è mio. Non l’ho mai desiderato.
Il mio nome si è perso quando uomo proferì per primo parola.
Il mio nome mi è stato rubato o non mi è semplicemente mai appartenuto.

Il mio nome adesso è scritto: scritto con sangue che alimenta cadaveri, dentro alle cattedrali colme d’oro e d’argento; il mio nome è inciso sull’anello del mio figlio illegittimo, è rinchiuso fra le sbarre di ferro che annientano l’uomo.

Il mio nome si colora di amore e rispetto. Il mio nome è stato cantato, negato, dissuaso, obbligato.
Il mio nome è rifiuto ed io nel rifiuto ho trovato la pace.
Il mio nome si è spento sulle labbra di chi mi ha atteso invano.
Voglio la pace che mi ha negato chi ha innalzato il mio nome a scudo.

Il mio nome è finito, o non è mai cominciato.


DIO