venerdì 1 dicembre 2006

Quello che resta dei problemi

Credo che molta gente passi la propria vita nell'inseguire la sofferenza, o meglio la parvenza di essa; persone che vivono avide di perseguire quelle forme stereotipate di dolore alle quali sono state abituate dalla tv, dai mass media, ma anche dalla società, e le ripropongono nella speranza di riprodurre lo stesso effetto altisonante. Una sorta di richiamo, un bisogno parassitario di attenzione.
Si alzano al mattino pensando già di essere incomprese, disilluse nel tentativo di comunicare il proprio stato emotivo e psicologico, esclusivizzano il proprio disagio atteggiandosi in comportamenti scenografici e disarmanti e recitano da bravi attori la parte di vittime della vita, teatralizzando una condizione persecutoria nei loro riguardi da parte della fortuna ( entità che peraltro viene elevata a macchina regolatrice dell' esistenza).

Non vorrei sembrare eccessivamente severo e cinico nei riguardi di chi vive in stati di disagio, ma non concepisco l'idea che una persona possa adoperarsi per poi vantare una serie di problemi relativi ad una presunta condizione "disastrata".
So per esperienza indiretta che chi vive realmente in condizioni di disagio psichico difficilmente trova la forza di uscire, lavarsi, vestirsi, o semplicemente alzarsi dal letto.
Troppo spesso sento impunemente utilizzare la parola "depressione" per definire un periodo di negatività.
Troppo spesso sento impunemente dire che "la vita è orribile, piena di problemi".
Troppo spesso sento l'istinto irrefrenabile di sputare gravi rimproveri a coloro che si pronunciano con tanta leggerezza.

I momenti "no" capitano a tutti; anche i periodi "no" non risparmiano nessuno.
Personalmente quando mi accade di sentirmi giù, stanco o demoralizzato, penso a chi non ha di certo il tempo per fare di questi pensieri: penso a mio padre che esce al mattino da casa per lavoro e torna la sera per cena, penso a mia madre curva sulla macchina da cucire ore ed ore..
Ma questi sono esempi molto banali.

Quando il morale è proprio a terra, mi spingò più in là: penso a un ragazzo rumeno che conosco, che lavora come muratore 12 h al giorno per poi passare per altre 8 h nella cucina di un ristorante; penso ad una signora russa che pulisce scale di innumerevoli condomini dalle 6 del mattino alle 8 del pomeriggio, avendo ha a suo carico, ma lontano da sè, figli, madre e nipoti.

Poi compio un passaggio crudele, opero una sorta di gioco degli opposti: prendo da un lato l'immagine di un bambino denutrito, soffocato da un incessante ronzio di mosche, con lo sguardo imbambolato e a cui è stata tolta la consapevolezza di appartenere alla razza umana. A questa immagine accosto quella di una signora ben vestita che passeggia con accanto la figlia adolescente e le rivolge questa frase "Adesso ti compri le scarpe Paciotti, non farmi vergognare!".
E poi penso, penso, penso...
Penso al diverso significato che attribuisco al termine vergogna, penso al perchè certa gente abbia procreato, penso a quella metà di incolpevolezza dell'adolescente e penso al danno sociale, penso all'assenza di umanità, all'aridità, alla superficialità , all'attaccamento che si può maturare per cose materiali e allo stesso tempo al distacco che si può alimentare per i propri figli,....

Guardo il bambino, mi sembra di poterlo quasi sfiorare. Gli interrogativi mi affollano la mente e paralizzano il mio corpo: che merito ho per vivere? cos'è che mi rende migliore e più adatto alla vita rispetto a un bambino di 3 anni? perchè corredo la mia vita di inutilità?

Ripenso alla prima immagine, vedo il bambino perdere qualcosa che non recepisco.
E' improvvisamente cambiato qualcosa nei suoi occhi, non ha più quella luce...
Penso a quante volte ho visto in faccia la morte. Nessuna.
Niente cinema, niente palpebre socchiuse, nessuna colonna sonora.
Quel bambino è morto per l'assenza di cibo, quel bambino è morto per fame.
La madre lo ha privato delle lacrime. Il mondo lo priva della morte: non ha mai vissuto pur essendo vissuto.

Provate a spiegare a quel bambino qual'è il problema che vi affligge.
Ma adesso non c'è più nulla di cui lamentarsi? Niente ha più valore, giusto?
Ripenso al bambino, che sono io, che è la mia ragazza, che è mia sorella, che è il presidente, l'avvocato, l'operaio, i miei amici, ... Mi si gela il sangue ed è allora che piango.

Che cosa resta dei problemi?
Forse solo un nugolo di mosche che imperversa sul cadavere di un bambino che non è mai esistito.

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